Sono sicura che molti ragazzi e ragazze che come me vogliono lavorare nella cooperazione mi capiscano quando dico “i miei ancora non hanno compreso cosa voglia fare ‘da grande’”. Eppure, grande già penso di esserlo! Ho 28 anni, una laurea triennale, una magistrale, un master e diverse esperienze lavorative alle spalle, per non parlare delle esperienze di vita fatte all’estero. Insomma: tutte le carte in regola per trovare un buon lavoro, provare a crescere professionalmente e ricercare in quello che faccio delle piccole o grandi soddisfazioni personali. “E perché non lo fai?”, “Prima o poi dovrai smettere di viaggiare e fermarti da qualche parte”, “Ma perché non provi a mandare il curriculum in quell’azienda, so che stanno cercando”.

Insomma, per la maggior parte delle persone, tutto ciò che noi giovani aspiranti cooperanti facciamo per inseguire questa strada pare essere semplicemente “una fase”, un periodo cuscinetto tra gli studi e l’inizio del lavoro, un modo per vedere il mondo e magari fare anche del bene, certo ma… “Prima o poi deve finire, dovrai anche iniziare a pensare al tuo futuro”. Al nostro futuro ci stiamo pensando eccome, e non solo al nostro: noi questo lo vogliamo fare per tutta la vita, o per lo meno finché non sentiamo sia il momento di cambiare professione o di prendere un’altra strada. Non è una fase, non è un anno sabbatico e non è voglia di “stare sempre in giro”. Fare cooperazione è un lavoro. Ed è un lavoro che vediamo strettamente legato a degli ideali, dei principi solidi e a tanta, tantissima voglia di far parte di un cambiamento.

Perché sto dicendo tutto questo? Perché finalmente pensavo di essere riuscita ad uscire da questa visione, di aver trovato quell’anello mancante necessario per fare un vero e proprio debutto nel mondo professionale della cooperazione, in grado anche di mostrare agli altri che quello che faccio, e che voglio fare, non è “solo volontariato”. Questo anello era per me il Servizio Civile Universale.

Chiara CattaneoNon posso neanche descrivere con quanta irruenza la notizia di essere stata selezionata per il progetto di servizio civile per cui avevo fatto domanda mi ha travolto. In quel momento mi trovavo a Tbilisi, ci vivevo da ormai quasi 6 mesi e avevo deciso da non molto che mi ci sarei traferita per un periodo molto più lungo. Avevo finalmente trovato un equilibrio, interiore e non, che mi mancava ormai da troppo tempo. Ricevere un’e-mail in cui mi veniva proposta una posizione nel progetto di OVCI a Pechino non è stata una notizia facile da assimilare. Non starò a ripetere la lista di piani cancellati, scelte di vita stravolte, occasioni perse a causa del Covid. Purtroppo ci siamo passati tutti. Dico però che finalmente ero arrivata ad un punto in cui sembrava di avere tutto ciò alle spalle. Accettare quella posizione significava mettere nuovamente tutto in discussione e abbandonare quelle poche certezze che avevo tanto faticato a riconquistare. Beh, ho accettato. E quindi pronti e via, ho comprato un volo per l’Italia, fatto la valigia e lasciato casa, persone e progetti. Mi sono rimessa in pista per qualcosa che sento mi rappresenti completamente e per cui sono disposta a dare tutta me stessa. E questa volta con un contratto vero, uno stipendio vero e soprattutto un riconoscimento delle istituzioni italiane. O almeno così pensavo.

Il 13 agosto è successo quello che nessuno di noi si aspettava: il Dipartimento per le Politiche Giovanili, che gestisce il Servizio Civile, ci comunica che sono state bloccate le partenze per una lista di una ventina di Paesi. E questo dal giorno alla notte, senza interpellare o informare gli enti, quando avevamo già fatto un mese di formazione, vaccinazioni, visti e valigie. Nessuno ci poteva credere. Ma soprattutto nessuno riusciva (o riesce ancora adesso) a trovare delle motivazioni valide per questa scelta. Né tantomeno ci sono state chiarite da chi è stata presa. 

In poche parole, il divieto di partire è stato imposto per quei Paesi considerati "a rischio". Ma "rischio di cosa?" è la domanda a cui non riusciamo a rispondere. Considerando che la pandemia di Covid esisteva già al momento della scrittura dei progetti, è stata già quindi considerata all'interno dei piani sicurezza degli stessi, che sono oltretutto già stati approvati e finanziati molto tempo prima di avviare i volontari al servizio. Inoltre, considerando che i volontari sono completamente consapevoli delle condizioni dei Paesi in cui si svolgono i progetti e considerando che, proprio per evitare ulteriori rischi, siano stati fatti vaccinare prima delle partenze, sembra alquanto strano che questi "rischi" di cui il Dipartimento parla possano essere attribuiti al Covid. C'è anche da dire che se si guardasse agli andamenti della pandemia come elemento principale per la valutazione del rischio per un Paese, non si spiegherebbe come questa lista possa includere Paesi per cui gli andamenti dei contagi o il numero delle vaccinazioni disegnino una situazione nettamente meno preoccupante di altri che non sono stati inclusi nella lista. Quindi nuovamente, sembrerebbe non essere questo il motivo di base. Infine, consultando il sito www.viaggiaresicuri.it della Farnesina, non vengono espressi divieti di viaggio per la maggior parte dei Paesi in questa "lista nera". In molti casi, però vengono indicati i motivi per cui è possibile recarsi nelle suddette destinazioni, quali "motivi di lavoro", "motivi di studio", ecc.

Questo allora ci fa pensare, tornando al punto iniziale di questo articolo (o forse meglio chiamarlo sfogo), che allora non sono solo mamma e papà, o zio e zia, vicini di casa e amici, a far fatica a capire che questa scelta di vita non è né un gioco né qualcosa che prendiamo alla leggera. Forse quel riconoscimento di cui parlavo prima e che pensavo il Servizio Civile avesse a livello istituzionale, in realtà manca. Perché se a un lavoratore o ad uno studente è permesso di recarsi in un Paese in quanto ha una motivazione valida e comprovata, allora perché il volontario di Servizio Civile non ha lo stesso diritto? Perché questa categoria, che oltretutto per definizione fa "una scelta volontaria di dedicare alcuni mesi della propria vita al servizio di difesa, non armata e non violenta, della Patria, all’educazione, alla pace tra i popoli e alla promozione dei valori fondativi della Repubblica italiana, attraverso azioni per le comunità e per il territorio", non viene ancora riconosciuta dal nostro governo? E con questo non mi riferisco solo all'inserimento nella lista di categorie che possono viaggiare nella famosa lista dei "Paesi E". Solo per fare un altro esempio, anche per richiedere un visto per prestare servizio, il volontario SCU deve spesso fare salti mortali in quanto non rientra in nessuna categoria ufficiale riconosciuta.

Quindi penso, tra tutte le innumerevoli domande che in questa situazione non ci stanno facendo dormire, che forse queste due appena citate sono quelle a cui dovremmo dare molta più attenzione e sui dovremmo attirarla.

Chiara Cattaneo, Casco Bianco OVCI Cina, in attesa di partire

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