Facevo finta di non aver detto a nessuno che sarei partita. Lo facevo per scaramanzia. Perché temevo di illudermi che qualcosa potesse andare storto, che qualche documento o qualche cambiamento di policy mi stoppassero sul più bello.

In realtà tutti lo sapevano, tranne me. Ero io la prima che non ci credeva. L’unica vera cosa che mi sono detta era che volevo partire come (e con) una valigia vuota, pronta per essere riempita di... di cosa? No, il punto non è riempire. Non è partire per avere qualcosa indietro. Di certo, però volevo non avere pregiudizi. E quindi sarò sincera: non ho letto migliaia di libri sulla Cina per prepararmi. Non ho guardato documentari o film. Quando ho scoperto che avevo la possibilità di candidarmi a questa esperienza, quello che mi interessava di più era la mission di base, il tipo di lavoro. E allora sì che mi sono messa a studiare: avevo una grande paura di non essere all’altezza.

foto6Sono partita il 22 settembre da Milano e sono “atterrata” in Cina il 9 ottobre. C’è stata una lunga quarantena, durante la quale continuava a vivere in me il timore e il pensiero che potesse succedere qualcosa che mi rispedisse indietro. Ma già durante quei giorni ho potuto sperimentare cosa significasse sentirsi aspettati e accolti. I miei colleghi di Womende Jiayuan (WDJ), la controparte locale, mi hanno subito scritto e coccolata (anche mandandomi del sanissimo e apprezzatissimo comfort food). E mentre mi gustavo i biscotti con le gocce di cioccolato e il tè caldo, aspettando che il mio computer accettasse di connettersi alla wi-fi dell’albergo, guardavo dalla mia finestra al ventesimo piano i palazzi ancora più alti del mio. Sembra un’immagine molto poetica, l’ho edulcorata parecchio in realtà. Ero tutt’altro che tranquilla e fremevo dalla voglia di uscire a scoprire cosa ci fosse là fuori e come fossero veramente le persone di questa nazione, quale fosse l’odore nelle strade, come fosse la temperatura e quale fosse il vero colore del cielo al di là della schermatura della finestra.

Beh, il primo VERO giorno fuori, il cielo era meravigliosamente azzurro sopra Pechino, l’aria era calda e finalmente accoglievo a casa Martina e Daling (le due volontarie in Servizio Civile appena arrivate a Pechino)! Per quanto i miei piedi scalpitassero per portarmi dappertutto, per vedere ogni cosa di questa città così gigante, la prima tappa è stata a tema burocratico. A dirla tutta, anche le tappe immediatamente successive lo sono state! Nell’arco della prima settimana ho iniziato a capire cosa volesse dire per davvero la parola “Burocrazia”, anzi, tutto il processo per rendermi una persona in regola non è ancora concluso e spesso mi fa venire in mente il ritornello della canzone “Never Ending Story” (il riferimento alla “Storia Infinita”, ovviamente, non è casuale). Fortunatamente, Ufficio Visti e Centro WDJ sono relativamente vicini e le strade che li collegano sono percorribili in bicicletta e molto caratteristiche!

foto1A distanza di un mese dal mio arrivo, mi sembra di essere qui da una vita e allo stesso tempo di essere appena arrivata. Devo dire che una delle mie paure pre-partenza, tuttavia, si è effettivamente avverata: non pensavo che potesse essere così faticoso accettare di dover dipendere da qualcuno per capire ciò che mi circonda. Ma è bello sapere di potermi affidare a persone (colleghi/e e coinquiline) che hanno una pazienza sconfinata nel tradurmi tutto dal cinese. La barriera linguistica fuori dal centro (e a volte anche dentro) è presente e tangibile. Ma gli sguardi curiosi delle persone che incontro sono sufficienti per farmi capire cosa devo rispondere quando mi parlano: “YIDALI!” (“Italia”). Sarebbe bello saper dire anche qualcosa di più. Ma va beh, il cinese è una lingua ricchissima e che non ammette imprecisioni nella pronuncia. Mi sento già molto soddisfatta nel saper contare fino a 10, ordinare dei ravioli o dei panini ripieni o chiedere di non mettere il piccante nel mio piatto (“BU LÀ”, almeno questa è la mia pronuncia, risultata efficace solo saltuariamente).

A proposito di ciò, è stato proprio bello constatare come, a lavoro, almeno in sede di terapia con i bambini, gioco e corpo si siano più volte dimostrati dei mezzi comunicativi talmente forti da ridurre fortemente il peso della barriera linguistica.

Per quel che riguarda il mio lavoro al centro, fin dal primo giorno mi ci sono tuffata. Non vedevo l’ora di conoscere i bambini e confrontarmi con i colleghi. Ammiro tantissimo l’impegno e la precisione con cui si dedicano al loro lavoro. Una delle mie mansioni consiste proprio nel dibattere e ragionare in termini clinici intorno ai trattamenti che si fanno con i bambini. Vorrei riuscire a creare un rapporto di scambio alla pari, all’interno del quale ci si senta liberi di poter tirar fuori impressioni su quello che osserviamo e in cui trovare (prima insieme e poi autonomamente) le strategie per superare le sfide tipiche di un lavoro a stretto contatto con bambini e famiglie in difficoltà.riabilitazione Elena Ippolito 1

Non sarà facilissimo, ma la chiave di tutto potrebbe davvero di nuovo risiedere nel gioco. Si impara giocando, studiando, esplorando varie strade e a volte chiedendo a chi ci sta vicino, altre volte solo fermandoci per rivedere la rotta.

Mi sento fortunata ad essere qui. Ho tanto da imparare, tanto da studiare e tanto da giocare.

Elena Ippolito, Terapista della Neuropsicomotricità dell'Età Evolutiva

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