Sono passati quasi cinque mesi da quando sono arrivato ad Esmeraldas per iniziare l’esperienza sul campo del Servizio Civile. In questo periodo di tempo mi sono inserito gradualmente nel contesto, ho conosciuto i colleghi e i luoghi in cui avrei lavorato, e dopo un primo mese vissuto da osservatore passivo ho potuto concentrami attivamente nel mio ruolo di “Educatore Professionale”.
Vorrei spiegare in poche righe quali siano le competenze proprie del mio titolo professionale, per spiegarvi meglio successivamente come queste si possano declinare nell’ambito del lavoro che svolgo qui a Esmeraldas.
Quando si parla di “educazione” a molti risalta alla mente la sola educazione di tipo scolastico o comportamentale. Pochi sanno che dell’area educativa fanno parte anche molti altri aspetti, tra cui lo sviluppo delle autonomie personali, la ricerca di una propria identità e di un ruolo nella società, l’apprendimento di un lavoro, lo sviluppo delle abilità cognitive, la gestione dei propri sentimenti e dei legami sociali. E ce ne sarebbero molte altre da citare. Spesso con il termine “educatore” si fa riferimento a chi insegna nelle scuole, o a chi lavora nei centri estivi e nelle comunità. Ancora una volta pochi sanno che esiste un professionista sanitario della riabilitazione che lavora in servizi socio-sanitari con persone di tutte le età con disabilità, o con problemi nell’ambito sociale, nell’area psichiatrica e della dipendenza da sostanze. In Italia questa figura è sicuramente valorizzata, anche se poco conosciuta. Qui in Ecuador invece non esiste. Con il termine “educador” si fa riferimento al professore, e con il termine “educador especial” si fa riferimento invece a quello che per noi è l’insegnante di sostegno. Inizialmente, quindi, per me era difficile sfruttare al meglio le mie competenze ed essere valorizzato, perché spesso venivo accompagnato dagli operatori a visitare persone con disabilità per lavorare nel solo ambito scolastico, anche se l’utente in questione aveva bisogno di sviluppare aree più importanti, come ad esempio quelle della comunicazione e dell’autonomia personale. In seguito, però, chiarito questo punto con tutti gli operatori, è iniziato il vero lavoro. Una parte di esso è cercare tutti gli aspetti positivi della persona, le abilità residue e le competenze presenti, e utilizzarle per lavorare sullo sviluppo di quelle che mancano. A volte si incontrano casi di disabilità gravissima, ed è lì che inizia la sfida. Lavorare in Italia, dove sono presenti molte strutture e molti servizi è un conto, ma qui in Ecuador occorre considerare anche altri aspetti esterni alla persona, come la grande povertà, l’isolamento di alcune comunità, l’assenza di servizi, di strade, di mezzi di trasporto e di ospedali. Tutti aspetti da tenere bene a mente quando si scrive un progetto di intervento per la persona.
Inoltre, a volte è piuttosto difficoltoso interfacciarmi con i beneficiari e con il loro modo di vivere e comprendere la condizione di disabilità. Il sentimento che si percepisce spesso è quello di sottomissione e arresa, spesso non riescono a dare uno sguardo di speranza alla loro condizione di salute e, più in generale, al loro futuro. È molto faticoso proporre soluzioni e progettare interventi quando da parte della persona con cui mi interfaccio non c’è ascolto, quando la persona con cui dialogo è stata da sempre abituata a vivere la sua condizione di disabilità come una condanna, dalla quale non può esserci via di uscita. Occorre sempre guardare oltre l’apparenza però, ricordandosi del concetto fondamentale che si utilizza sempre nell’ambito educativo e riabilitativo, cioè la “gradualità”. È impossibile, e soprattutto ingiusto, entrare nella vita di una persona e stravolgere tutto ciò in cui è stato abituato a credere. È necessario che il cambiamento arrivi dalla persona stessa. Il mio compito è dunque quello di accompagnarla e di essere per lei un “ponte” che la aiuti a raggiungere la migliore condizione di inclusione sociale possibile. Bisogna fornire alla persona uno stimolo, una motivazione valida affinché possa cambiare il proprio punto di vista nei confronti della vita e di ciò che questa ha da offrirgli. È un lavoro difficile, che a volte porta a risultati minimi, soprattutto nei casi di disabilità complessa, ma è importante provarci sempre, non arrendersi mai e impegnarsi a cercare un modo con cui migliorare la qualità di vita della persona, specie in un contesto così complicato e privo di molte risorse. È necessario capire quali siano i desideri della persona, ed aiutarla affinché possa raggiungere i suoi traguardi nella maniera migliore possibile, perché possa sentirsi parte della società e non una persona inutile, perché possa avere un ruolo attivo nella sua vita e nella sua famiglia, e che non si consideri solamente come un peso, e aiutarla affinché possa essere una persona felice, con ogni mezzo possibile.
Un altro grande compito svolto insieme alle promotrici di OVCI è quello di informare la persona di tutti i servizi di cui essa può usufruire, fare da tramite e metterla direttamente in contatto con il professionista di cui ha bisogno, che sia un terapista, un medico, uno psicologo o un avvocato. Sono molti i casi di abuso, soprattutto contro donne e minori. Molte volte capita che la persona si racconti e manifesti la propria frustrazione per ciò che ha subito, o che hanno subito i propri figli. Non di rado accade che non venga nemmeno sporta una denuncia perché il responsabile dell’abuso è un membro della famiglia stessa, e che molte volte i familiari vivano in casa in un clima di terrore e di intimidazione. Come si capisce è un lavoro difficile, che spesso ci pone davanti a delle barriere che sembrano invalicabili, indistruttibili. Il nostro compito ancora una volta è quello di informare i beneficiari sui diritti fondamentali di cui sono stati privati, che possono essere difesi e aiutati, che ogni persona è responsabile delle proprie azioni e che deve essere condannata se commette un reato; che se commette atti di violenza contro la sua famiglia sicuramente questi non la ama e non la merita.
Concludo dicendo che però il lavoro più importante e difficile che svolgo è quello con me stesso. È difficile gestire le proprie emozioni quando si è sul campo, quando si incontrano le persone nelle loro case che molte volte raccontano storie di vita incredibili, per le quali è impossibile non provare rabbia. Diritti umani violati, condizioni di isolamento e di povertà a livelli massimi, abbandono, maltrattamenti, abusi, denutrizione, violenza, sottomissione e intimidazione. Tutti aspetti che per le persone locali sono normali, perché “è sempre stato così”. Di fronte a tutto questo dobbiamo essere sempre in grado di non darci per vinti, guardare i fatti da un’altra prospettiva e impegnarsi a vedere il bello, a vedere quanto c’è di positivo; trovare quello spiraglio di luce che ci darà la forza di impegnarci per tutte quelle cause che sembrano perse, ma che possono avere un finale diverso. Sperare e lottare sempre. Non potremo cambiare il mondo, non potremo risolvere tutti i problemi della società, ma possiamo aiutare a mettere le basi per un cambiamento, che con il lavoro di molti e con i giusti tempi a qualcosa di bello sicuramente porterà.
Massimo Emanuele Rubino, Casco Bianco con OVCI in Ecuador